Arti Visive | Pubblicato il 15 marzo 2015
Oslo è sì solo un punto di partenza, ma non per questo deve essere necessariamente sottovalutata. I norvegesi stanno cercando di colmare quel gap stilistico profondissimo che la separa dalle altre capitali nordiche (Copenhagen e Stoccolma su tutte), tentando di trasformare un paesaggio urbano che oscilla fra il grigio ed il rosso-mattone sbiadito in quell’intreccio di acciaio e vetro che altrove ormai ha sostituito le vecchie costruzioni (talora rimpiazzando, talora reinventando). Scommetto che fra 10 anni non riconoscerei neanche più il profilo di una città che, fra locali piacevolissimi e cantieri senza fine, sta andando incontro ad una chirurgia più radicale che estetica. No, decisamente non sottovaluterete più Oslo, almeno fra qualche tempo.
Passi 18 infinite ore in treno, altre 3 – agitatissime – su un traghetto ed accumuli due notti quasi senza sonno. Eppure come metti il primo piede fuori dalla nave rimani a bocca aperta, inebetito: è ancora buio, ed il lievissimo chiarore ad est ti permette di scorgere solo il perimetro di ciò che ti circonda. Montagne, all’apparenza altissime, la cui linea si tuffa direttamente in acqua. Non c’è niente che separi questi due mondi, eccetto una linea di lampioni pallidi e qualche casa che dovrebbe essere rossa. Roccia, ghiaccio, mare: Isole Lofoten.
Scivolando (letteralmente) per le strade di Tromsø hai l’impressione che, in realtà, la vita (molto) al di sopra del Circolo Polare Artico non sia niente di proibitivo. Probabilmente ci sbagliamo, ma l’atmosfera splendida, tranquilla e decisamente giovanile che si respira quassù sembra andare molto al di là di un’ex colonia di minatori di carbone e di esploratori artici. Se poi, alzando gli occhi nell’unica sera limpida in dieci giorni di viaggio, il cielo misteriosamente pennella strisciate verdi luminose, allora forse si è aggiunto anche un bel pizzico di fortuna.
Poco importa se il vero Capo Nord (Nordkapp) è la penisola accanto a quella dove ti portano e se la lingua più parlata è il giapponese, l’aspetto fondamentale è il raggiungimento di una meta. E la senti ancora più tua quando tutti gli altri si sono catapultati nell’edificio/museo per colpa del freddo o dello shopping-da-souvenir compulsivo e tu rimani a contemplare quello spazio grigio e ventoso che ti separa, a nord, fondamentalmente dal nulla. E’ una sensazione di intimità estrema e di piccolezza indefinibile. O sono io che probabilmente non mi sono mai scrollato di dosso un certo romanticismo. Cambia qualcosa?